Sono stata tre giorni in letargo nel mio fagottino di dolore. E ci sono ancora.
Sono stata tre giorni in una bolla che era più un cristallo recente con tante punte. Tutte inglobavano insetti, sofferenti anche loro, rappresi mentre spalancano le loro mostruose bocche al culmine del dolore, per sempre memorizzato, come la rabbia incontinente di uscire dal baco.
Sono stata che nulla funzionava, tutto d’accordo nel non partire, sono stata che tutto complottava, lampadine, accendigas, zip dei giubbotti, ammortizzatori dei bus, antenne televisive, rilegature dei libri, spray del deodorante e della panna liofilizzata. E sono stata che li sventavo tutti, colpi bassi e sincronici, che non uno era meno importante e dispettoso, non uno che potesse essere lasciato correre o farmi dire vabè dai c’è di peggio.
Sono stata che il mouse aveva una velocità strana di inseguimento dell’intenzione, del tocco della mano, ma forse era la mia testa che viaggiava in folle, e non si sa ancora qui dove si va a parare.
Sono stata morta, una due tre quattro cinque enne volte, che tre giorni non bastano se trentatré anni non sono bastati, trentunesimo anno è uno dei libri più belli mozart si abbrutiva e con parto facile creava bellezza di partiture, per fare la Sylvia entro trentadue rimane poco tempo e per altre celebrità nel punto e nel nervo più vivo del morire non mi azzardo a tirare le somme, e io in quanto a vivere ci devo ancora pensare.
Dimmi tutto!