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Comportandosi bene, il nuovo giorno le si apriva a nuove possibilità, di scrittura, di lavoro con la psicologa, di fumo nervoso ma in pace con se stessa per aver fatto ancora una volta la scelta giusta e anche di semplice riposo, giacché si era beccata un brutto raffreddore e nel suo sangue circolavano alte dosi di acido acetilsalicilico effervescente, ma un riposo coscienzioso, salubre e pieno consapevolezza di star facendo le cose per bene, non bere, non vomitare, fumare poco ma intensamente, nutrirsi abbondantemente per non affaticare il suo fisico nei duri e aspri mesi dell’autunno che l’aspettavano. Il suo compleanno era passato da tempo, era ora che i frutti della maturità si aprissero in lei come melagrane scintillanti e i chicchi gioiosi le dessero il coraggio di affrontare gli impegni quotidiani con dedizione, con una passione che non aveva mai messo in nessuna cosa al mondo se non nell’essere malata. Si avvolse la sciarpa blu petrolio attorno al cappuccio di lana del golfino logoro che aveva portato per giorni, senza lavarlo, lavando solo la pelle screpolata dai saponi astringenti che usava per strusciare via con spugna ruvida le scorie del dolore notturno e aprire i pori a quello quotidiano, si diresse con passo indeciso verso la fermata del 17, numero 17, alle ore 17, come il numero civico della la sua casa, come la sua ex casa, come gli anni che non aveva vissuto, tra un passo di danza, una relazione sentimentale con qualcuno più affranto di lei, l’ospedale, le corsie di tossicologia e quelle di psichiatria erano le sue preferite, sembrava tornarci volentieri ogni volta come se fosse l’unico luogo al mondo in cui si potesse sopportare, quando delegava agli altri il potere sulla sua vita, sulla sua stessa mente, da sola era capace solo di combinare guai, anche quando non ne combinava, era come una bambina capricciosa e turbolenta che escogitava di combinarne, per vedere fino a che punto sarebbero arrivati ad amarla, anche nel suo peggior stato, anche quando lei andava preda dei suoi deliri e dimostrava di non essere capace d’amare nessuno, di avere pietà per nessuno, meno che mai i genitori, ancora meno la sorella. Quando era in preda ai deliri riusciva a guardare in faccia le persone e a dirgli con lo sguardo fulminante di chi non sta considerando affatto i tuoi sentimenti: ti faccio questo perché ti odio, perché mi odio, perché odio questa casa e odio questa vita e allora ti arreco dolore apposta, perché mi guardi esistere, hai questa colpa e non ti puoi liberare di me solo buttandomi fuori di casa perché ti perseguiterò in psichiatria, al bar, al gabinetto, la mia malattia sarà ovunque, invaderà e sporcherà tutti i tuoi spazi vitali, ci affogherà, insieme, nelle correnti del male, e tu verrai giù con me. Questo diceva coi fatti quando era nelle peggiori condizioni, magra, troppo magra, e adesso, mentre camminava al freddo, nel sottile tepore della pelle rivestita da un leggero strato di grasso, tornava con la mente al freddo dell’inverno passato, quando non aveva carne a proteggerla e la fame non passava più dallo stomaco e dalla bocca ma direttamente dagli organi che si autofagocitavano, quando un attacco di panico sembrava un infarto e un infarto era, beh, un infarto, e si ricordava che le avevano comprato la televisione, bella, bellissima, da tenere in camera perché i film di natale sarebbero stati l’ultima cosa che avrebbero visto insieme, guardavano l’eredità e i quiz televisivi in memoria di una dolce attesa della cena quando al sicuro, a casa, ma la cena in ospedale non arrivava mai per lei, perché un solo grammo di cibo che non fosse miele da succhiare le avrebbe spappolato il fegato, andava poi a fumare nei bagni di nascosto, ma tutti sapevano che era lei, perché era in corsia insieme ai vecchini paralizzati al letto che non si potevano alzare e lei era talmente malridotta che non si accorgeva nemmeno di stare per morire, saltava fuori dal letto, si staccava le flebo, e si infiltrava nel cucinotto a vedere se poteva rubare qualche panettone regalo dei parenti dei pazienti, e trovava solo pane, rubava pane, pane, pane, tutto il pane avanzato che i vecchini senza denti lasciavano nei vassoi, e con il pane ci condiva il pane, e ci faceva il sugo, col pane, e trangugiava, nei pochi momenti in cui la lasciavano sola, non aveva il permesso di mangiarlo perché gli organi si dovevano disintossicare, ma la sua fame era incontenibile, erano mesi, forse anni, che non buttava giù un boccone di pane, e per sublimare il dolore allo stomaco si intossicava di siti internet che fotografavano il cibo, famelica come un navigatore solitario di notte su un sito porno, avvicinava il viso allo schermo, si infilava qualche gomma in bocca, tra i denti frastagliati, e fantasticava di addentare calde torte di mele, morbidi muffins, croccanti biscottini speziati, Lebkucken, crostate di zucca, ometti di zucchero, in attesa della prossima sorsata di miele, quella autorizzata con la mamma, come una piccola poppata, con gli occhi che le strabuzzavano dal viso che somigliava a un teschio innestato su stecchi di legno foderati in una tutina grigia a pallini gialli, che apparentemente doveva rallegrare il reparto di medicina ma addosso a lei intristiva tutti, finalmente l’aveva dovuta buttare, da quanto le stava piccola adesso, si diceva, camminando tra i lampioni arancioni nel vento pungente della sera che si era già fatta scura alle cinque del pomeriggio, dopo aver scritto un’altra pagina del suo racconto infinito, prima che entrasse a teatro, spavalda, si spogliasse, si mettesse a piedi nudi, aprisse bocca, e recitasse masticandoli sei versi della divina commedia che si era imparata a memoria, poiché che il babbo l’aveva rimproverata di leggere troppo Murakami, e troppo poco Dante. Appassiònati a qualcosa, dio mio, le aveva detto, appassionati anche a un’unica cosa al mondo ma fallo, dedicati a qualcosa che sia altro da te, aveva tuonato seccato perché aveva interrotto la sua partita a Fifa13, colleziona accendini, fai quel cazzo che ti pare, ma dedicati a qualcosa che non sia l’autobiografia. E così si era iscritta a teatro, e si era anche divertita, ma dentro di lei sapeva che l’unica passione capace di svegliarla la mattina e di non farla sbarellare tutto il giorno fuori dai binari era scrivere, scrivere fino a far male alla testa e a ingrigire le dita, e così quando lui sbattè la porta di casa per uscire, lei si divincolò dai tre strati di vestiti pesanti che aveva addosso, accese la doccia, aprì il computer, staccò il telefono, si preparò i cereali da ammollare nello yogurt, una tazza d’orzo caldo da perforare l’esofago, si fumò tre sigarette, e si scrisse un post it in cui segnalava e allarmava gli altri e se stessa che quel giorno non avrebbe fatto nient’altro che scrivere per il Nanowrimo (un romanzo in un mese), mangiare zucche condite, e coprirsi bene.

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1 commento su “Il freddo
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  1. Spesso un’opera viene pubblicata in più edizioni con titoli diversi. Il caso più famoso non appartiene alla fantasy ma alla fantascienza, ed è quello legato al romanzo di Philip K. Dick Do Androids Dream of Electric Sheep?, tradotto una prima volta nel 1968 con il poco suggestivo titolo Cacciatore di androidi. Che sia stata paura di disorientare i potenziali lettori con un titolo troppo oscuro, desiderio di non occupare la copertina con una scritta troppo lunga o semplice preferenza per la soluzione proposta, di fatto la scelta di non mantenere il titolo originale ha creato problemi sul lungo periodo. Una volta c’era meno attenzione alla precisione in determinati dettagli e l’editore dell’epoca, La Tribuna, non poteva certo prevedere il successo del romanzo, ma ha dato comunque il via a un’ambiguità che dura tutt’ora.

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