Sgattaiolò fuori dalla sua camera tre ore prima di cena e sentì la puntura del freddo attraversarle il corpo in un rantolo, si era presa un tremendo mal di gola quella mattina a suon di singhiozzi nel vento aspettando come un cane sullo zerbino fuori dalla porta che qualcuno le aprisse. L’odore di verdura lessa dalla cucina l’attirò per un breve istante ricordandole il brodo di Natale, ma subito mutò in un vago sentore di carta al macero. Non poteva comunque sfuggirgli: la biblioteca a quell’ora era chiusa, diceva chiaramente il cartello appeso alla vetrata, non ci sarebbe più stato tempo per scroccare internet fino all’indomani, quando le teste mozze delle carote sarebbero rotolate via dal gambo e il liquido marcio sgrassato dalla pentola. Si era lasciata prendere dallo sconforto e aveva appoggiato una mano sul braccio del babbo a cercare uno sguardo, un mezzo sorriso, una parola dolce che non venne mai, venne fuori piuttosto un’espressione sfiancata dalla continua infelicità della figlia, dell’incessante, quotidiano, suo non trovare pace o quiete in niente. Si alzava continuamente dalla sedia dietro la scrivania sopra la quale era poggiato il computer aperto su un file senza titolo, si accendeva una sigaretta e camminava fermandosi ogni due passi per traspirare angoscia e focalizzare bene il fatto che non poteva, non poteva proprio, permettersi di avere un attacco di panico in quella casa, non mentre il cibo cuoceva, non con il babbo che non sapeva come averci a che fare, con i suoi deliri di terrore e le sue parestasi a mezz’aria, non avrebbe avuto un sacchettino di carta pronto a contenere il suo fiato qualora fosse andata in iperventilazione, non aveva pazienza per sopportare un altra delle sue tante patologie, quella dell’orrore e del disgusto di non saper scrivere di nient’altro che di se stessa e dell’ospedale. E del cibo dell’ospedale. Il ricordo della carne alla griglia nel vassoietto d’alluminio con la bietola la rincorreva, la perseguitava ovunque, dentro e fuori dai sogni, le balenava addosso come un grosso parallelepipedo che chiamava Destinazione. Sapeva che forse non sarebbe arrivata sana e salva a New York, a vedere quell’albero di natale che aveva promesso alla mamma con il cuore in mano mentre stava morendo, a mangiare quella benedetta fetta di panettone, avrebbe scelto di rinunciare, se avesse continuato a farsi sopraffare e sconvolgere dalle espressioni del viso di suo padre, il ripetersi interminabile della mimica facciale e delle parole che suonavano come se davvero fosse infelice per causa sua, che non sarebbe mai stata la figlia meravigliosa che sperava sempre di essere ai suoi occhi ma che finiva sempre per minare dalle radici, dalle basi, la poca fiducia che ancora poteva rosicare impegnandosi a preparare il brodo fumante la sera, a versare il latte nel suo musli la mattina, a tagliare il pane per farne due porzioni uguali identiche, così che non potesse lamentarsi che mangiava il doppio di lui, a lavare i piatti e le posate che utilizzavano, prima ancora che lui potesse chiederglielo. Aveva imparato ad avere paura, e la paura la muoveva come un lombrico strisciante attraverso le stanze opprimenti d’una casa riscaldata in mezzo al gelo della più raffinata periferia. Le nuove case costruite che racchiudevano la felicità, pensava, il cane, il piano cucina immacolato, l’armadio di betulla nuovo, l’aspiratore, la cappa di design, tutte menzogne incartate nel pacchetto fregatura, neanche con l’odore del brodo caldo in cui aveva tagliuzzato carote, sedano, cipolla e prezzemolo e che adesso sobbolliva sommessamente appannando i vetri che davano sulla strada privata, dando una parvenza di umanità a quelle mura, riusciva a intiepidire lo sguardo spietato di chi era inconsolabilmente annoiato dalla sua colpevole, inguaribile infelicità.
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