Aveva spedito il racconto all’editore, ma non aveva ricevuto risposta, non ora, né mai. Si avvizzì ricurva nel suo golfino grigio col cappuccio e aprì l’email per la decima volta da quella mattina, ma ogni volta che controllava c’era soltanto un nuovo messaggio di spam, qualche evento a qualche serata teatrale, molta pubblicità di giornaletti a cui non si era mai abbonata. Si chiese se non fosse il caso di cambiare argomento di scrittura, per una buona volta, per la volta definitiva, e se fosse il caso di scrivere ancora, se scrivere poteva davvero salvarla. Dove si sarebbe nascosta, questa volta, tra la folla degli autobus che vanno al deposito di notte, o rintanata dietro la lavatrice in carica a lavare via le spoglie umide della sua debolezza. Quella mattina al corso di arte aveva sfornato il suo solito, ennesimo componimento di colori rossi, accesi, rabbiosi, dissennati, e ci aveva fatto un frego nero sopra con la cera più carica che potesse trovare nella scatola, ci aveva scarabocchiato parole come solitudine, paura, rancore, angoscia, incastonate nel reticolato della scala di colori bollenti su cui aveva pestato matite e pastelli, presa da un maremoto di emozioni tristi e feroci, e dal terrore che suo padre cambiasse le chiavi di casa prima che lei tornasse, come segno univoco che delle stonature e dei passi falsi era stufo, stanco, spossato. Si portò lo scaldotto appena uscito dal microonde sulle gambe infreddolite dentro ai jeans, sapeva di pane appena sfornato, ma non riuscì a invogliarla a mangiare, lo stomaco chiuso da un nodo di singhiozzi e lacrime trattenute troppo a lungo a favorire i sorrisi, le speranze, le bugie. Il suo racconto era uno schifo, ecco qual era l’unica verità, e aveva bisogno di tanto spazio nello stomaco, per digerirla.
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di cosa parli, masti?
ci trovi anche mail alle quali non rispondi..
Io pure!
Ok ora voglio leggere il resto… 😉