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Il babbo pensava che lei fosse infelice, e all’ora di pranzo ne avevano parlato, mentre bollivano il merluzzo e le zucchine a rondelle e dopo che lui l’aveva rimproverata di farsi sempre prendere dalle manie, dalle ossessioni di spezzettare le pietanze e il pane in minutissimi pezzi e di non pensare ad altro che al cibo per tutto il giorno, ma non era vero, lei ci pensava molto, ma non sempre, pensava anche a scrivere, a leggere, pensava che lui fosse esagerato, certo il cibo occupava -aveva sempre occupato- nella sua abbondanza e nella sua privazione, un ruolo fondamentale della sua vita, lo sapeva, ma da tanto disagio poteva rinascere un nuovo amore o una piacevole passione non necessariamente distruttiva, e una saggezza e proprietà di sapere alimentare come sintesi spirituale che ben pochi possono vantare se non hanno vissuto 20 anni in quelle catene. Il babbo pensava che lei fosse infelice, ma lei le aveva risposto che anche lui era sembrava sempre infelice, e che le dispiaceva, e che sì, forse lui avrebbe sperato che una persona -una figlia- giovane fosse più spensierata di così, ma che probabilmente quella era la condizione a cui erano destinati, padre e figlia, ferocemente idealisti nel loro cinismo, ridotti al darsi il meno fastidio possibile traendo il massimo possibile della piccola, casalinga, quotidiana semplicità, che pur c’era nella loro convivenza, certo era un ambiente nuovo, da annusare e fiutare per entrambi, bisognava marcare il proprio territorio ambientale ed emotivo, altrimenti si sarebbero dovuti sparare l’uno per l’infelicità dell’altro, era proprio quella comunicazione assertiva che gli mancava, quel messaggio che tante volte in passato aveva lasciato trapelare con messaggi perversi e impliciti quali bere o abbuffarsi e vomitare, adesso, le aveva detto la psicologa, era ora di cacciarlo fuori a parole, e lei sapeva come usarle, le parole, se solo avesse avuto il coraggio di conoscere suo padre, e accettarlo, e amarlo, invece che temere un suo solo sguardo. Lui doveva lasciarla andare, a New York con la madre, senza maledirla, senza chiederle di rinunciare solo perché non ci poteva venire lui, ma anche solo a fumare dritta in piedi nella stessa casa, doveva lasciarla andare, uno di loro due doveva spezzare il circolo vizioso del dispiacere, del compatimento, dell’incubo, del sospetto: sua figlia era così, andava aiutata a rigare dritta altrimenti si perdeva, ma non tenuta stretta a scudo tratto contro l’altro genitore, come corazza contro l’universo intero; forse non sarebbe stata mai tanto normale, giunta a questo punto, e le preoccupazioni non sarebbero mai finite, dovevano metterlo in conto quando avevano procreato, senza dare ai figli la gravità e la pesantezza del dover essere per forza infinitamente e continuamente allegri, avrebbero voluto forse dei figli stupidi?  La vita era per lei la continua attesa altalenante tra le sue lacrime e quelle altrui, tra le flebili risate, le piccole battute, i tragici ricordi e le speranze future, e comunque lei era viva, e anche più stupida di quanto pensavano, va bene, non era la figlia perfetta, ma non era neanche così orrendamente infelice.

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2 commenti su “La figlia perfetta
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