Cliccò sull’icona di Itunes e la sua libreria musicale le apparve nella sua mostruosità, solo brani di musica classica, per lo più Rachmaninov e Chopin, qualche aria d’opera, Renata Tebaldi, il Te deum di Tosca, neanche una traccia dei suoi vecchi cari Beatles. Li avrebbe sicuramente rimessi non appena si fosse procurata il cd remastered, le ricordavano gli unici momenti decenti che aveva vissuto in ospedale, quelli in cui li metteva piano e si mettevano a ballare goffamente, tra i letti della camerata, lei e la Stefania, compagne di stanza e di malattia, pur avendone due completamente diverse l’una dall’altra, si svegliavano ogni mattina accanto, una attaccata a una pompa per nutrirla – a proposito, le avevano rimosso il tubicino dalla pancia proprio quella mattina che aveva litigato col babbo per le solite questioni della spesa, lui in un accesso d’ira aveva gettato addirittura un barattolo di pelati nel cassonetto, a dimostrarle quanto era stufo marcio delle sue parole di scusa, delle sue lacrime, del suo essere tremendamente fragile e del suo frantumarsi per ogni gesto, parola sbagliata, avrebbe forse voluto da lei dei fatti e il silenzio, il silenzio non della morte ma il quieto silenzio dell’universo, dove tutto regna armoniosamente ed è regolato dalla fisica e non dalla metafisica- Ballavano ridacchiando dopo cena, quando tutti gli altri matti guardavano il telegiornale nella sala comune, e se una o l’altra non era legata al letto con le cinghie si prendevano le mani e a braccietto facevano brevi danze circolari al ritmo di Love me do o I wanna hold your hand e gli infermieri che passavano lì davanti non potevano far altro che lasciarle stare, perché erano così sublimi nella loro miseria, riuscivano a trovare un conforto e un sorriso solo per loro, aspettando l’ora in cui i rispettivi parenti e la sorella, forse, potevano arrivare, ma non arrivavano mai, specialmente la sorella, la madre sì, la sera, e il babbo a pranzo, e la sorella della Stefy qualche sera sì e tante no. Cenavano alle sei e l’attesa era evidentemente lunga. Faceva freddo, e si rintanavano sotto le coperte per farsi vedere sempre tristi, depresse, scontrose e sconsolate. Aspettavano i pigiamini lavati, e qualcuno a cui poter dire: tirami fuori di qui. Ma quando non c’era nessuno Ballavano, e si sfiancavano, stufe dell’unico movimento e sfogo fisico di deambulare tutto il giorno avanti e indietro per la corsia chiusa a porte blindate, a volte con un rosario racimolato da qualche parte in mano, Hey Jude, it’s been a hard day’s night, e sputacchiavano forte quando ridevano della ridicolezza del loro stupido teatrino, eppure quando ballavano non vomitavano, non tiravano ceffoni a nessuno, battevano le mani e i piedi a tempo e scaricavano l’adrenalina soffocata in tanti anni d’indegnità, una per violenza contro gli altri, l’altra per violenza contro se stessa. Cliccò di nuovo sull’icona di Itunes e, con la sigaretta ancora accesa in bocca, scaricò Meditation di Massenet per accasciarsi sul letto, rifugiarsi sotto la copertine di lanugine e non pensare oltre che non aveva nessuna voglia di reincontrare la Stefania, non lì, per lo meno, e che se avesse fallito anche questa volta, l’ospedale sarebbe bastato a farla danzare fino alla fine.
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Ciao 😉
Bello