Tutto il rumore, tutto il rumore diffuso che a malapena riesco ad arginare se quando chiudo la porta con un gesto di momentanea sottolineatura ci appoggio la schiena contro come un sacco di sabbia zavorrato dell’apnea servita a passarci attraverso. Anche un viaggio breve una traversata. Il rumore che aggredisce non richiesto, il rumore che insegue, il rumore onnicomprensivo che sconfina da ogni classificazione organica e bussa insistente ogni strato sensibile. Posso anche fare il contrario, colorare il nòcciolo, lasciare che sbiadiscano i contorni là fuori dove il mio perimetro di tolleranza finisce, nessuno ha un vero trofeo in serbo se l’armatura che porta addosso è intarsiata di mille e milioni di tubi digestivi che metabolizzano la cacofonia urlante di così tante, troppe parole ingiustificate, stuprate e svendute tra le fila di porte affacciate sulla grande piazza, che hanno più campanelli dorati, che grammi d’aria all’interno.
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