Sono tornata senza cuore, un po’ mi sono trasformata in colonna cariatide che sorregge sulle sue spalle tutto il peso di un tempio, e si corrode nel tempo. Sono tornata anche senza pezzi di corpo, quelli invece li ho lasciati nel bagno di fiumicino, insieme agli elettroliti e alle bricioline di biscotti nel lavandino del cesso degli invalidi, e se mi avessero chiesto la tessera, l’avrei mostrata ben appuntata nel petto. Sono tornata anche senza un reggicalze dorato, lasciato sui pilastri della metropolitana a cui siamo scampati per un nano secondo con i tacchi incastrati sui binari e i riflessi acuiti grazie al succo di melone generosamente rovesciato da una barista inesperta nel più bel locale del porto, i boss della mafia greca che mangiavano in silenzio al centro del bancone scortati solo dal loro proprio grasso, giorni di lavoro sfumati in un sex on the beach fortunatamente annacquato e l’animo deluso, e un po’ arrabbiato, di una donna che si sega le ascelle e strizza in un bustino dalla mattina per risvegliare desideri sopiti in poche ore di quotidianità e stasi dialettica intervallata da poche risate soffocanti e non riesce a togliere i pensieri frustrati di un uomo a cui si rompe la macchina e beccato senza biglietto la prima volta della sua vita che sale su un autobus, this is my life baby, io salgo molto in alto, ma quando cado in basso, rotolo giù per la scarpata, anch’io baby, rispondo, non ho mai amato la vita facile, volevo essere un angelo, bene, lo sono stata, sono stata un angelo della morte di 30 chili che ha suscitato il ribrezzo, la rabbia, la disperazione, la lontananza, e ha rattristato, per quanto si possa più di quello che è, il natale, ho voluto e ho potuto, e poi sono guarita, non volendo, una donna si è trasformata, ha allungato la falcata, alzato la testa, ingrassato le cosce, saltato le nazionalità, ha indossato una croce, ha messo insieme una valigia di calma e sangue freddo, inghiottito e digerito il sale delle lacrime che sembravano sgorgare dallo stomaco invece che dagli occhi, perché gli occhi erano ancora congelati dall’iceberg della verità che squarta la nave nel fianco, una morsa che la notte l’apnea, e la sera la consolazione, vorresti dire a lui che sei stata egoista a pensare che nonostante tutto lui non ti avesse detto che eri stupenda appena entrato, che non ti sbattesse a letto ma avesse sbattuto la porta, che non si strappasse la barba per non lasciarti andare via, gli porgi una birra, noi siamo reali, ci siamo fatti belli, noi eravamo lì, abbiamo guidato ubriachi una macchina di nome Euphoria, e ci siamo stancati a un passo dal paradiso.
Quando ti levi il mascara0 (0)
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ti voglio bene
Non ho mai saputo se hai scritto un libro.
Che mi puoi dire in merito?
Bellissimo, Davvero. Non ho parole.
scritto da dio,come sempre…’ci siamo stancati a un passo dal paradiso’ è la chiusura più bella che abbia mai letto. Spero tanto che tu continui a scrivere ‘paradisi di poesia’ come questi, ma ti auguro, nella vita quotidiana, un sereno purgatorio in prosa. Ti vogliamo tanto bene e ti aspettiamo con gioia
Che meraviglia di delirio!
Sei tornata Elisabetta cara, e si vede! 🙂 Bellissimo post! mi sei mancata… anche se Twitter ci ha legate in questi giorni ^_^ ma i tuoi post sono un’altra cosa! 🙂 Bentornata!!! :-*** kisses e buona domenica!!