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Questo l’ha scritto il mio caro babbo

IL TRADIMENTO

Se ripercorro tutte le circostanze che mi hanno condotto al presente stato di solitudine e di abbandono, non so francamente se ciò sia dipeso più da una cieca fatalità, da una smisurata malvagità di colei che mi ha abbandonato o da una mia colpevole incapacità di farmi amare abbastanza. Forse da tutte queste cose insieme? Forse queste tre cose in sostanza coincidono? Non lo so. So che un tempo eravamo felici insieme. So che quando passeggiavamo insieme gli altri ci guardavano con ammirazione e quasi con una punta di invidia. Quando, abbracciati su un divano, ci guardavamo fissi negli occhi, quando talvolta un suo sospiro si trasformava in un mio sospiro – di malinconia, ma anche di segreta gioia, anche di incondizionata comprensione – credevo (e sembrava che anche lei lo credesse) che quella insuperabile felicità non potesse avere mai fine, perché di fatto non aveva avuto nemmeno un inizio, perché era la felicità in assoluto che semplicemente si attuava in noi e attraverso noi. Ci svegliavamo la mattina – dopo una notte dolce e calda – e bastava il primo sguardo per augurarci buongiorno. Il mio carattere mite e privo di pretese – quasi direi privo di vera e propria volontà – sembrava adattarsi perfettamente a lei, donna in alcun modo autoritaria, no di certo, ma comunque di temperamento deciso, di decisioni ferme e ponderate, che per me erano una grazia del cielo, una sicurezza incrollabile. Per dire tutto in una parola (parola di difficile interpretazione – è vero – ma da tutti considerata sublime e come tale inequivocabile), ci amavamo: io la amavo, la adoravo ….. era mia, ed io ero suo. Mai e poi mai e poi mai mi sarebbe venuto in mente di cercare altra compagnia, altre persone, altro modo di vivere e di essere felice: in lei e con lei avevo tutto. Poi le cose cominciarono a cambiare. Sempre più spesso cominciarono a venire in casa uomini di modi forti e anche un po’ aggressivi, e pareva che tali modi le piacessero. Parlavano, ridevano, talora perfino mangiavano insieme. Io non sapevo far altro che ritirarmi nella mia stanza, quasi fingendo di non dare troppa importanza a ciò, quasi pensando – idiota! – che quelle visite non potevano altro che farle capire la mia importanza. Poi cominciò ad ….. assentarsi. Una sera non tornò a casa: arrivò la mattina dopo e mi riempì di baci; ed io? Niente. Poi le notti in cui non rincasava diventarono sempre più frequenti, e la mattina quasi nemmeno più mi salutava. Poi cominciò a star fuori anche nei fine settimana. La sola cosa che mi diceva prima di uscire il venerdì sera, era che mi avrebbe lasciato da mangiare, e quindi non dovevo lamentarmi. Ed io? Che potevo fare? Non sapevo che fare, tale era il mio stupore e la mia disperazione. Uno come me non sa nemmeno parlare: non sa far altro che guardare implorando amore. Finalmente un giorno mi disse che con il tipo di vita che ora faceva non poteva avermi più fra i piedi, e allora l’universo crollò. Ora non so far altro che ricordare i baci, le carezze, gli sguardi di una volta. E questi ricordi sono il grande bene e il grande male della mia vita nel canile.

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