New York Party -intermezzo-
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Questa volta avrebbe sconfinato e finito la sua carriera in America. E non in un bel modo. Una brutta sorpresa americana. Lo scoprirai in ritardo, non ti lascio andare con quel pacco di dinamite, io ti seguirò, non sarai mai tranquillo, nemmeno quando credi che io non veda, che te lo ripeti a memoria per poi riapparire al di là dei mondi con la tua valigia in mano potrai fuggire ovunque io ti scoverò ricorrerò nei tuoi sogni come un fantasma che abita la tasca più vicina all’altezza del cuore e lo sentirai dirigere i battiti a mio comando quando parti e te ne vai io saprò dove andrai e ti dirò dove andare. Lo sapevo, quando scrivevo, io, io, io, che mi dicevi di parlare in terza persona perché così potevi colpire a fondo, che mi sostavi dietro, scostavi il fumo della mia sigaretta, e ogni tanto mi sfioravi la nuca sporgendoti dall’altro tavolo, quello vicino alle luci, a tutti i tuoi libri da recensire solo al mio hai aperto un po’ la bocca e poi hai detto boh, chi ti capisce, digitando insieme a singhiozzi facendo tremare le nostre tastiere, l’uno di schiena all’altro e i nostri monitor che si specchiavano chiazzandoci di ombre reciproche. La metà dei sogni di un decennio passato a indagarsi e a scriversi dietro le spalle avevano preso consistenza quando si era stesa sul letto a metà pomeriggio, caduta addormentata con le dita che in modo involontario avevano continuato a far svirgolare il telecomando su e giù per i canali educazionali, sicura di arrivare in tempo, sicura che non l’avrebbe perso di vista, trangugiata veloce una scodella di Soba (non puoi mangiare quella roba!) e una sciacquata di denti veloce tra caffè e colluttorio che sollecitavano le papille di un proibito piacere amarognolo. Il suo non era un istinto vendicativo, era una fine contemplazione della provvidenza, era un senso di predestinazione cerebrale, sarcastico, buono, non era portata per la magia nera. Ricordatelo, sei brava a orientarti. Non si sarebbe persa come una matricola in un campus universitario. Dentro le palpebre visualizzava le destinazioni e credeva che fossero così importanti da dover prendere appunti per poi risolvere -una volta sveglia – che si trattava di fandonie, di stupide sinapsi mentali che assumevano importanza solo in quanto forme e simboli ricreati sulla sua sagoma, (e come tutti gli uomini diversi somigliavano a lui!) a indicarle qualcosa, per indicarle che nel sogno ci sarebbe stata una chiave, e che le persone che le stavano accanto potevano essere conforto, ma mai soluzioni. Potevano starle dietro, sfiorarle la nuca, ma il foglio bianco stava davanti. Io ti troverò. Il tintinnio delle tazze da caffè –poco lavate!– che sbattevano a ritmo incessante al bar dell’aeroporto e si moltiplicavano vuote e sbavate sul lungo bancone, la vecchia che le diceva mio marito era tanto buono, mi faceva tante di quelle corna, non mi faceva mancare nulla però, era tanto buono, era in ritardo per il prossimo volo, di nuovo perché aveva dormito troppo, si era di nuovo lasciata intrappolare nella rincorsa di quell’uomo che studiava, quell’uomo i cui libri le rubavano del tempo! che le studiava le spalle, si sentì che stava farfugliando qualcosa a voce alta, era il ricordo di una sera che lei gli stava solleticando concentrata la punta dei piedi e lui le diceva annusa questo calzino questo non è vegàno. Adesso quel ricordo le veniva addosso dritto come una macchina dell’autoscontro. Puntato proprio addosso a lei. Chissà perché si ricordava dei suoi piedi, forse perché avrebbe imparato a seguire le sue orme. Aveva inseguito i ricordi depennandoli ogni volta scartata una possibilità ritrovando tracce che si palleggiavano rimandi e citazioni tra i libri che si concludevano con numeri di telefono -di studentesse?- cercando l’indirizzo della illustre facoltà a cui si sarebbe recato a tenere la conferenza sulla nuova letteratura emergente della crisi, lui ci navigava nella crisi, in debito con lui, dovevano sentirsi, tutti gli scrittori scrutati e criticati fin nelle viscere, come tutti quelli che lo incrociavano, dovevano distogliere gli occhi per non sentire di avere tanto da saldare, e si era dimenticata di portarne uno suo per la traversata, quando si sarebbe annoiata di seguire lo squarciarsi delle nuvole e aprirsi i buchi che creavano una voragine blu tra la carcassa dell’apparecchio e il mare, poteva vedere delle persone? Era troppo lontana. Toccò il filo dell’acqua che aveva nel bicchiere davanti a sé e per un vuoto d’aria le si rovesciò addosso e lei rimase con il bicchiere a testa in giù infilzato sull’indice come un cappellino, sbalordita, quasi umiliata, tanto che dovette chiedere e un Valium ma nascose la sua gonna bagnata con il sacchettino per il vomito. Questo non te lo posso raccontare. E invece doveva essere lei a prendere le redini di qualcosa che c’era da preservare, da mettere sotto vuoto e liofilizzare come un’estratto da mandare in orbita per l’eterno. Il suo non era un taxi a cui si può comandare insegua quell’uomo. Io sarò lì tra la folla e tu parlerai a una platea di sconosciuti, sicuro che io non ascolterò e forte e ammiccante tra il pubblico incravattato, scorreranno fiumi di champagne ignaro in mezzo a tutti quei pomposi dei tuoi amici scambiandovi le vostra libertà di opinione. Il cigolìo del carrellino delle bevande che scivolava tra i sedili lentamente, per permettere alle assistenti di volo di prestare ascolto a ogni passeggero la asfissiava, strideva come un animale che sta subendo la macellazione in vita, cercò di coprirsi il viso con il cuscinetto su cui appoggiava la testa ma invano, quello era rigido e la posizione era veramente scomoda, persino quando le portarono il suo pasto di plastica, si arrese al fatto che non aveva prenotato  perché fosse vegano, con l’etichetta appiccicata con il suo nome e cognome e comunque non aveva fame, le ricordava anche quello chedovette convenire che non era poi diverso da quello che mangiavano a casa, pasti messi insieme depressurizzando vaschette di congelati, la scrittura gli prosciugava la fame, e la sete, gli levava il sonno, la letteratura era il loro ultimo tipo di amore. Lo scoprirai in ritardo, che io sarò lì. Sapeva tenere a mente il conto delle volte in cui si erano trascinati fuori dal lento con la voglia di scrivere come un crampo e le sue ultime recensioni non erano buone, tutti sarebbero rimasti appesi alle sue labbra come dante canne da pesca, e ammutoliti, senza osare girarsi per flirtare coi vicini di posto, di fronte a una recriminatoria così incalzante. Tutte le cose che mi hai fatto ti torneranno indietro, tutti gli io che hai detto si trasformeranno in tu. Il volo era stato tranquillo, in realtà lei non aveva fretta, per quanto ne sapeva, poteva essersi bevuto un Valium anche il pilota, quelle gocce parevano subire il destino dell’inflazione, durante la tempesta. Uscita dall’aeroporto aveva attaccato discorso offrendo una sigaretta al conduttore dell’autobus, si era fatta indicare tutte le vie di fuga se mai avesse avuto bisogno di correre via, di rifugiarsi da qualche parte, se, diceva, dovesse capitare nelle strade di qualche sobborgo, non disse che l’ateneo iniziava dove la città finiva, sospeso nella dimensione in cui la città si deprimeva, e la campagna grigliava le salcicce. Aveva tutto il tempo che voleva, anche per togliersi quegli abiti dimessi da viaggio, tingersi i capelli, stringere gli occhi davanti allo specchio e poi riaprirli e magicamente riformularsi con gli occhiali, una testa rossa fiammante, il punto dell’orizzonte innalzato da dodici centimetri di tacco. Rimpiangerai l’acqua e il sapone, la mia scrittura con la schiuma. Appena messo un piede dopo l’altro con la schiena curva, quasi raggomitolata su se stessa, lasciando sgocciolare l’acqua tra le cosce sulla scala mobile che sputava fuori i pesci che diventavano anfibi e ritornavano rettili e si era infilata l’impermeabile veloce scambiando la destra per la sinistra, o forse era al contrario ma in ogni caso riguardava le braccia, e invece camminava un po’ zopp
icante, un po’ storta, senza che nessuna gamba cedesse mai il peso all’altra, lungo tutto il muro dell’aeroporto le suole di gomma scricchiolavano il rumore le giungeva indietro amplificato da lassù dove la pioggia cadeva sul soffitto tempestato di piastrelle a mosaico e grandi finestre a quadri di plexiglas, sembravano annunciare il suo nome, la divisione delle acque, pensava, sotto la luce di un faro che le camminava accanto puntandola, un passo dopo l’altro, diceva, a quell’ora i passeggiamenti in movimento erano così gremiti di viaggiatori solitari come se tutti si fossero riuniti insieme per restare soli, voleva togliersi dal naso quello che sembrava puzzo di cloro bruciato, e pipì annacquata, raggiungere al più presto quel limbo dall’odore acre dell’ustione dei capelli che si sente quando si annusa la pioggia nel sonno, che era buttarsi nel mezzo di un incrocio a New York, in cui tutti erano svegli, vestiti, pronti, nelle lucide limousine affittate o troppo eccitati per ascoltare le chiacchiere dei tassisti indiani, tutta la città aveva un’unica destinazione ed era la prestigiosissima università innalzata dove la rettrice che aveva visto morire sotto i suoi occhi Anne Sexton poco dopo la lettura di della sua ultima poesia curava una serra di futuri premi Pulitzer, dove si sarebbe tenuto un monologo feroce, tutto l’oratorio era un frastuono di bisbigli sovrapposti, lei aveva le mani immerse in un vaso di Pandora che tornavano su grondanti e cariche  un uovo ingolfato di parole, sillabe e suoni da rigirare tra le mani senza scioglierlo, con i tappi nelle orecchie e la maschera antigas, altrimenti lo azzannava, le servivano felci smussate per difendersi, le serviva un vestito battagliero e fiero dietro cui nascondersi e rimpicciolirsi, nel caso qualcuno l’avesse riconosciuta, le serviva un calice di champagne per poter cambiare discorso in un attimo proponendo un brindisi, si sarebbe arresa alla passione se il suo autocontrollo (quanto ci aveva dovuto lavorare!) non la trattenesse guardinga e immobile in secondo piano, lasciarsi piccole morti alle spalle, non siamo poi così lontani, in confronto al grosso (paradosso!) stinco di carne viva da disossare, mi devo spellare, si vedeva invisibile strusciare il vestito contro le tende, marcare il territorio come una belva selvatica che viene portata nello zoo, digrignava i denti per lo spavento, rilasciava ormoni di quello che gli esseri umani chiamano stress, avrebbe pisciato dappertutto per la paura, per terra lungo la strada, sull’autobus vedendosi sfrecciare accanto come tanti colpi di sparo che tengono in piedi chi è stato colpito per qualche frazione di secondo le immagini di una qualsiasi periferia, e poi dopo nella hall, si poteva fare largo a zampate graffianti piombando in mezzo al Discorso e invece si era inflitta un chirurgico sibilo soffocato dai gesti delle mani sporche dello sferragliamento dei motori a cui si era aggrappata per salire, che ripulivano la bocca da cui fuoriusciva una leggera bava residuo dello psicofarmaco, qualche signora stanca ogni tanto alzava le palpebre appesantite di mascara, ogni tanto alzava la testa appoggiata al vetro e con un’aureola di vapore lasciato sul finestrino si girava a guardarla, (per braccarla? come si vedeva che era italiana), ma per lo più si concentravano sui destini più prossimi,  bambini urlanti che un giorno gli si rivolteranno contro come schegge impazzite e li abbandoneranno, la cena da preparare che le rimarrà sullo stomaco, le poche parole spiacevoli che si riservavano alle donne nell’intimità della casa intoccabile proprietà privata dove la violenza ha spesso la parvenza del silenzio. Naturalmente, lei aveva scelto un altro tipo di violenza, lei aveva scelto la scrittura, e, naturalmente, aveva scelto lui. Non ti lascio andare con quel pacco di dinamite. Io cambierò i tuoi piani. Con un gesto di noncuranza aveva spostato l’aria di qualche centimetro la mano che svolazzava davanti al petto, vai pure, io resto a casa, tranquillo, laverò i piatti, aveva anche sfoderato uno di quei suoi larghi sorrisi con la cioccolata tra i denti, era sicura che comunque non glielo avrebbe chiesto, di accompagnarlo, il lavoro di critico in fondo era un modo come un altro, ma molto più chic, per conoscere nuova gente, avere contatti, farsi adorare dalle ragazzine, giocarsi bene le sue carte, sapeva esattamente con chi e dove parlare, lei aveva cambiato idea, da quando tra le righe del documento word aveva intravisto che avrebbe parlato anche del suo racconto, e non in modo adulatorio, davvero pensava che fosse così infantile e allora nel raggiungerlo si sarebbe trasformata in una donna. Diventare donna significava imparare di chi vendicarsi.

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5 risposte a “New York Party -intermezzo-
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  1. Avatar piccoli-traslochi

    Grazie per il vostro articolo, mi sembra molto utile, provero’ senz’altro a sperimentare quanto avete indicato… c’e’ solo una cosa di cui vorrei parlare piu’ approfonditamente, ho scritto una mail al vostro indirizzo al riguardo.

  2. Avatar elisabettapendola

    ma looool grazie!!!

  3. Avatar ゚・❤ EleOnora ❤・゚

    Ho due premi per te!
    Baci

  4. Avatar anna maria

    Solo una mente arguta, condita da una penna libera ed un animo sensibile e fuori dalle regole, poteva renderci partecipi di “New York Party -intermezzo-” Ciao Betty

    1. Avatar elisabettapendola

      ciao Carissima <3<3<3

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