Jaele stava piano piano abituandosi all’idea dell’ospedale. Quando era arrivata non ne voleva sapere dell’ennesimo ricovero, scalciava e urlava e piangeva e implorava i dottori di non internarla di nuovo. Adesso stava di nuovo riprendendo il ritmo del reparto, e questo le faceva paura, perché aveva cominciato a pensare che ci avrebbe passato la vita, là dentro, e come un automa deambulava avanti e indietro districandosi tra poche sigarette e tante regole rigide che il suo cuore non avrebbe mai accettato fino in fondo, lei aveva le ali, lei era una libellula, e le mancava lo sbattere luminoso delle sue fragili appendici per librarsi lontano. In quei dieci metri di corridoio poteva solo spegnersi, lentamente.
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