Jaele aveva bevuto un caffè per pranzo. Era sempre meglio che vomitare. Sapeva che iniziando a mangiare non si sarebbe più fermata e poi sarebbe corsa in bagno cosa che la nuova dottoressa le avrebbe impedito e quindi le sembrava meglio prevenire che curare. Quella era davvero capace di legarla al letto se voleva, e Jaele aveva paura di lei, e del suo malessere vero dopo il vomito. Quindi un caffè per quel giorno le sarebbe bastato. In fondo la nutrizione artificiale l’aveva fatta senza troppe storie, si meritava un po’ di riposo il suo povero stomaco. La sua testa si riempiva di ossessioni strane, di come riempire la vita, il vuoto dell’ospedale, l’apatia, l’angoscia che l’assaliva e che era abituata a scaricare sollevandosi facendosi lavande gastriche su lavande gastriche, fino a sfinirsi, fino a stordirsi. Per poi riprendere immediatamente con le ossessioni. Doveva finirla con questo circolo vizioso, e oggi sarebbe stato il giorno più adatto per ricominciare una nuova vita, più pura, più vera, più sincera, più umile.
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Cammino nelle tue parole, insieme a te, sulle tue montagne russe. Cammino, leggo e ti credo.
Perché se credo a te, credo anche a me.
Credo che forse… una speranza di non affogare c’è.