Sabato mattina. Di sopra, nel candido cubicolo asettico e abbacinante del bagno, odoroso di carne tiepida e di dentrifricio, il rituale che prescrive di lavarsi certe parti del corpo mi ha fatta chinare meccanicamente sul lavandino in adorazione dello sfavillio del cromo, con la luce alterna psichedelica della lampadina rotta e intermittente (da segnalare guasto), accecante che andava e veniva dai rubinetti. Caldo e freddo, pulizia derivante da lisce e profumate saponette verdi, capelli sottili come curvilinei a matita sullo smalto; le medicine multicolori, i pesanti vasi di vetro che contengono gli spazzolini, le boccette in grado di curare i sintomi del raffreddore, il froben portato da casa, e quelle in grado di farti dormire in meno di un’ ora. E poi a letto, nella stessa aria potenzialmente feconda, profumata di lavanda, tende bianche e odore del felino Lucy che viene a trovarci, in attesa di assorbirmi prima di assopirmi di nuovo, ma sbiadita aspettativa ovunque. E tu sei la mobile epitome di tutto questo. Per te, con te, in te. Dio, possibile che sia tutto qui? Rimbalzare lungo un corridoio riecheggiante di singhiozzi di altri pazienti e risate chimiche? di autovenerazione e autoripugnannza? di gloria e di disgusto?
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