Prendetemi con la paura. Prendetemi che parlo un po’ e sto trecento anni in silenzio, continuando il discorso fino alla frase perfetta, non dirò mai perché era quella che ha avuto voce, se doveva trovare la sua acustica, così com’era, che l’ho detta e l’ho detta e l’ho detta io, non si può ma si può. Prendetemi che mi raggomitolo sbadiglio e rannicchio, la pelle rappresa nella pancia con le ditate. Prendetemi con le belate e i ladrocini vili e i sotterfugi, e i mille piani per non scalare un gradino nel raziocinio sociale, sono brutti come tutti brutti sono i ricatti e le storture ai bambini. Prendetemi che io di tendenza empatica non giudico nessuno, e non perché non avrei le dita che mi pizzicano di giudizi, e che sono di quella specie là che ce l’ha in bestia ammorte solo con i genitori, e con loro ci da giù pesante, no che ci va a ballare. Prendetemi che viene mia sorella con le mie nipotine e la madre impedita e cieca e agonizzante e incapace di strapparsi da sola una vaschetta di prosciutto infilarsi una ciabatta di rivolgermi il buongiorno una mezza parola se non l’urlo montato a lapillo di neve improvvisamente cammina scende sale imbrocca il buco della chiave il buco dei calzini ai giardini e gioca, con le nipoti, col sole che si imbatte e scherma nelle bende e tra gli occhiali neri, che rende ossuta e storpia la mia stampella rincarata che doveva sorreggere anche i rancori i nodi legati al dito inciprigniti e i cazzicomodi, e non può neanche guardarmi negli occhi a dire: sono venute, te le ho portate via, perché tu non le vedessi, perché loro non vedano te. Prendetevela, questa madre. E a me non vi fermate proprio, ché l’anima di Elisabetta me la tengo stretta io. Con le ditate.
Dimmi tutto!