Quando mi feci il mio -unico- tatuaggio della libellula due giorni prima di compiere la maggiore età, era la mia idea di trasgressione, di ribellione a quella camera iperbarica di ottundimento in cui risuonava Wagner l’unica pietanza calda a fumare in casa nostra era il tabacco del suo sigaro. mi facevo bastare il fatto che se mio padre sorrideva una volta l’anno, era quando poteva prendersi beffa del mio ennesimo fare buco nell’acqua, ero la conferma triste che dava senso alla sua tristezza e questo aderiva e faceva quadrare tutta la sua impalcatura epistemologica, ed era anche il mio più grande obiettivo, di quel mezzo sorriso gliene offrivo varie e valide occasioni, mi impegnavo e dedicavo seriamente. Mi compiacevo di non piacergli, se era questo il prezzo d’uno sguardo, di essere ciò che lui pensava di me a prescindere, l’anello così debole che per grazia del cielo avrebbe potuto essere anche proprio l’ultimo anello della sfortunata stirpe. Una debolezza irriproducibile, così è stato e non mi costa dargli ragione. Però prima dei 18 mi feci sto tatuaggio. Forse volevo una sfuriata, forse volevo che a volare fosse qualche piatto invece che il Wagner così anestetico che raggiungeva vette inudibili di silenzio tranne che col cuore, ma anch’esso zittito e in ossequio. Lo feci sul polso, era un punto strategico, un po’ nascosto, ma abbastanza visibile da poter suscitare una qualsiasi reazione, un moto di qualcosa. 15 anni fa ho fatto il tatuaggio per far incazzare i miei genitori.
I miei genitori non sanno che io ho un tatuaggio.
Dimmi tutto!