Guardo la mamma vestirsi per il gran giorno e trovo la forza per spazzare il pavimento che ho trovato lì. Trovo la felicità nelle piccole vittorie di ogni giorno, ok, forse non sarò una donna realizzata, forse non sarò mai perfetta, forse non avrò raggiunto grandi obiettivi, incarnato alte aspettative, ma sono viva, in forze, finalmente capace di intendere e di volere, posso decidere se andare o no al compleanno della mamma, ci andrò naturalmente, l’aiuterò a trasportare il carico dei suoi 60 anni (ops, non si dice) il peso di uno spignattamento lungo una settimana da dare in pasto a 60 sconosciuti, sorreggerò il peso di vederla stanca per un’isola che non c’è, di non sentirla farmi le feste e i salamelecchi dalla finestra quando suono il campanello, accentuerò un finto sorriso brindando con la fanta al suo declino, instaurerò discorsi e chiacchiere disinvolte fingendo che tutti mi stiano simpatici e sarò adorabile. Non era così scontato, mi hanno dato fiducia ed è stata ben riposta, posso dirlo con orgoglio, sto costruendo una roccia dentro di me che si chiama dignità anche e soprattutto perché non mi scorderò mai da dove provengo, da una realtà e una prospettiva di internamento psichiatrico a vita. Mi era stato diagnosticato questo futuro. E invece sono fuori, misteriosamente felice, non mangio quello che passa il carrello del vitto ma quello che preparano le mie mani e che decide l’estro del cervello, ad esempio oggi a pranzo che ti fai? non c’è la mamma che ti prepara la pasta. Ti devi arrangiare. E lo fai. Sono nata per fare da mangiare a chi amo, e per mangiare quello che faccio, come tutti, devo smettere di considerarmi diversa, io sono parte integrante di un tutto che mangia, che mi mangia e non mi vomita, e sono indispensabile affinché tutto ruoti, tutto circoli, il sangue, le correnti e le sorgenti di parole, e anche il loro affluenti in mare, che le riceve e distribuisce nell’nfinito dell’anima, il mondo non sarebbe lo stesso senza di me, ho una funzione, piccola, modesta, è mio dovere cercare di migliorare ma soprattutto di accettare di non essere la Starlette della malattia mentale: la verità fa sempre bene: sono mediamente bruttina, o mediamente carina, dipende da che parte mi si guarda, mediamente stupida, o mediamente intelligente, accettare, Elisabetta, accettare anche che la vita è guardare la Signora in giallo mentre si attacca la zucca nella padella. Essere malata mi sollevava da tante responsabilità, sono dovuta arrivare a farmi imboccare per accettare di nutrirmi, accettare di essere in vita, di avere il diritto, il permesso di esistere. Dovevo ritenermi e mostrarmi così malata e fulcro intorno al quale tutto si smuove, prima di girare la testa e non riuscire a guardare, che non solo l’ospedale non solo i miei genitori ma tutto il mondo dovesse venire fin lì a ficcarmi un cucchiaio di marmellata in bocca e a ripetermi che non sono un pezzo di merda che merita di morire, sono dovuta arrivare a dare il consenso di non lasciarmi morire. Perché questo credevo. A volte lo penso ancora, ma mi tiro su e penso che se anche fossi un pezzo di merda che merita di morire posso sempre fare qualcosa per redimermi, per riparare, per trovare un senso che forse mi è solo stato nascosto fino a ora, non è che non ci fosse. Le piccole vittorie di ogni giorno, dicevo, non sono scontate, alzarsi e sorridere, sbadigliare, dire ancora cinque minuti per favore, ma poi scartabellarsi dal piumone e trascinarsi verso la macchina del caffè, infilarsi il piumino sopra il pigiama e sentire tirare il cane che cerca un angolino per fare pipì, fare una doccia calda che rimuove le cellule morte, spalmarmi la crema all’olio d’argan sulla pelle morbida, senza spigoli, senza ossa sporgenti e affilate come ghigliottine da afferrare con le mani, senza sbattere ogni volta contro le costole, lisciarmi i capelli ritornati lunghi, scaldare il latte per la colazione, riuscire a mangiare i cereali nella tazza senza pesarli ossessivamente al milligrammo, andando a occhio, a fame, non verrà giù un meteorite a parallelepipedo, ascoltare Werther di Massenet alla radio mentre seduta a tavola davanti alla tovaglietta con le sardine raschio col cucchiaio gli ultimi chicchi sul fondo e mi sento pronta per partire, davvero ovunque si vada. Mi hanno dato fiducia e io voglio dimostrare che hanno fatto bene. Che si può contare su di me. Che sono una donna d’onore. La mia convalescenza può essere la cosa più divertente ed emozionante che ci sia, ed è bene che la sfrutti ed è bene che semini amore perché l’amore d’ora in avanti non può che crescere. Update: è finita che non ho retto, sono scappata dal compleanno. Ho perso.
Dimmi tutto!