Stava ascoltando l’album bianco dei Beatles a tutto volume alle otto di mattina per cercare di aprire gli occhi allo specchio e poter piegare le ciglia all’insù. Non si truccava mai e quello era l’unico accorgimento che prendeva per aprire lo sguardo sul mondo. Doveva pensare assolutamente ai regali da fare a natale, i biscotti le uscivano sempre un pasticcio e non poteva contare sulle giapponeserie che si preparava per sé. Si ricordava che una delle cose che più amava nelle fredde sere d’inverno quando non era ancora vegan erano i passatelli in brodo, quelli emiliani con tanto formaggio nell’impasto e una spolverata sopra che si aggrumava e si appiccicava ai bordi del cucchiaio o rimaneva attaccata nel fondo della scodella e la si doveva grattare via. Non sapeva perché gli erano venuti in mente come possibile regalo alle otto di mattina dopo aver mangiato una torta di cachi e farina di segale che esprimeva tutta la sua integralità e organicità non sapendo di niente -ma ricordava vagamente il pastone della cartapesta-.Adesso i residui delle sue zuppe erano chicchi di riso nero orientale fermentato per anni in contenitori di legno grezzo, ed erano deliziosi quanto e più dei passatelli, e la loro preparazione fatta con una lentezza e un amore che non metteva in nessun’altra passione che non si potesse svolgere in una cucina. Aveva messo il brodo dei broccoli della sera precedente in un contenitore ermetico e l’aveva riposto in frigo per cuocerci il cavolo rosso croccante, e fare lo stufato di straccetti di soia strascicati nel sugo addensato dal kuzu. Il suo corpo stava assimilando e incamerando sotto forma di grasso sottopelle ogni singola molecola del cibo sano che portava alla bocca con le bacchette, non sminuzzava più il cibo in mille pezzettini microscopici dall’inizio di Dicembre, come avrebbe detto il dottore della commissione dell’IMPS che le doveva rinnovare l’invalidità (che poi, che ne sapeva lui del tortellino spaccato in cinque spicchi) le pareva un ulteriore passo avanti verso la guarigione, certo aveva abbandonato un’ossessione solo organizzando i propri banchetti in stile rigorosamente macrobiotico e totalizzante, e i dottori l’avevano cominciata a chiamare ortoressica, certo che era meglio che anoressica, in fondo il suo corpo stava lievitando giorno dopo giorno, e questa volta la stava prendendo bene, non ne stava facendo un dramma, non ci voleva mettere un freno, era di ottimo umore nonostante il giro vita che cresceva, le magliette e i golfini che le salivano corti sopra la pancia perché il seno occupava posto adesso, e i bottoni che le si sganciavano spesso dei jeans, ma era così allegra, così gentile, così volenterosa, autonoma nell’autodisciplinarsi, autoindulgente nell’assecondare le sue voglie e nello stesso tempo rigida rispetto a un codice immaginario di regole che comprendevano gli orari di sveglia di e di ritirata dalla giornata, l’assunzione degli psicofarmaci prescritti, portare fuori il cane, mangiare, lavare i piatti, tenere in ordine casa, scrivere almeno una pagina al giorno, produrre qualcosa di artistico oltre la scrittura (e la mamma le aveva finalmente portato i pastelli per ricreare la lezione d’arteterapia del liunedì in casa) anche perché la sua scrittura non era arte, assomigliava più al sangue che colava dal naso, chiedere al babbo il permesso di esistere. Si rallegrò tocchicchiandosi il gonfiore dello stomaco dopo colazione pensando alle sue analisi del sangue che andavano incredibilmente bene a parte l’emoglobina se si contava tutto quello che aveva passato, e non le veniva più voglia di abbuffarsi e/o vomitare da un bel pezzo ormai, da quando forse l’avevano beccata a taccheggiare un supermercato, sapeva di non poterlo fare, e non lo faceva, semplicemente era un imperativo categorico: non lo doveva fare punto. Come bere. I vari perché passavano in secondo piano. Ma il più bello dei perché era che ci si sentiva tremendamente bene a non bere e a non vomitare, e non le riusciva difficile ammetterlo anzi avrebbe voluto gridarlo, che trovava spazio per fare un sacco di cose, spazio che prima che la ricoverassero d’urgenza e definitivamente in un limbo lungo un anno rubava alla realtà per confondersi in un mondo orgiastico di senso di interezza, totalità estrema (era difficile da spiegare l’eccitamento quasi sessuale di un’abbuffata per chi non ci era passato – che forse si poteva avvicinare a un riavvicinamento alla fase orale del bambino) per poi svuotarsi non solo del cibo ma anche di mille pezzettini di se stessa, due pasticche di potassio prese subito forse bastavano al suo cuore a non smettere di battere, ma non rincollavano i frammenti incrinati della sua anima quando succedeva. E non doveva, non dove succedere mai più, la psicologa l’avrebbe aiutata a non fallire, le lacrime di gioia e di rabbia vera l’avrebbero aiutata a non fallire, l’albero di Natale era lì a ricordargli che lei poteva scrivere un raccontino di se stessa a lieto fine.
Dimmi tutto!