Malata a chi?
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Quella mattina l’aria era freschina quando si recò in centro per consegnare il racconto, e le mani erano incartapecorite dalla secchezza del vento, ma la caccola marroncina era perfetta nella sua forma e consistenza sulla punta delle sue dita, le narici erano state ispezionate a dovere alla ricerca di qualche pezzo grosso tra i peletti nelle cavità, una protuberanza estranea da estirpare, e puntandole lo sguardo addosso più da vicino, si poteva notare chiaramente sul suo viso un’aria compiaciuta e soddisfatta; la rotolò svogliatamente tra i polpastrelli per darle la forma di una pallina che poi avrebbe scaraventato nel cestino, una volta tornata a casa, mettendo alla prova la sua mira fallibile; il pomeriggio era appena cominciato, aveva pranzato abbondantemente in un ristorante poco fuori dal centro, decidendosi all’ultimo momento e scendendo di fretta alla fermata dell’autobus davanti alla trattoria, prima aveva sognato di mangiare la pizza, a pranzo, era dal giorno precedente che la voglia irresistibile tipica delle donne incinte o terribilmente impaurite la serrava in un continuo fastidiosissimo nominarla e chiederla, esplicitamente o meno , ma poi al babbo era venuta voglia di provare quel posticino che era lì da così tanto tempo, un posticino che come diceva lui “c’era sempre stato” , e lei non aveva avuto il tempo di dire di no, che ormai ci aveva fatto la bocca sulla pizza, e corse dietro suo padre giù per gli scalini del bus. Entrarono nello stanzino buio e chiesero due posti all’aperto e gli vennero consegnati i menu plastificati con le scelte del giorno a prezzo fisso ma per sua fortuna c’era anche il menu normale e lei optò con fermezza per la cosa più sicura che si sarebbe sentita di mangiare e trattenere, gli straccetti di tacchino ai carciofi coi fagiolini mangiatutto, i broccoli e la verza stufati, no il pane grazie non lo avrebbe mangiato, per oggi, si disse, non era il caso di esporsi così tanto, seppure il babbo le continuasse a ripetere quanto fosse buono, sano, e quanto le avrebbe tanto fatto bene, ma tanto, che ci doveva fare, ormai era un caso perso (lei? lui?); lui prese il baccalà coi ceci, le sue portate erano spiccatamente grandi e curate e ben condite per essere una trattoria alla buona, e la pantomima dello sminuzzamento del pane e dei pesci cominciò con lo sforchettamente e lo scoltellamento a scomposizione e ricomposizione del piatto in un patetico quadro cubista. Dopo il caffè dolcificato con la bustina che si era tenuta di riserva dalla mattina -ne prendeva sempre una in più di quella che scioglieva nel cappuccino, la mattina, ogni volta che si fermava a un bar, così da tenere accumulato sempre in borsa un piccolo paradiso di zucchero artificiale- tornarono alla fermata dell’autobus a cui erano scesi prima per prendere quello che li avrebbe riportati a casa, la lattina di cocacola ancora in mano ché non aveva finito durante il pasto, sgocciolava ad ogni sobbalzo dell’autobus in corsa sulle strade dissestate della semi-periferia che li avrebbe riagguantati a sé e tenuti prigionieri per tutto il resto della giornata, il sole sbucava ora autorevole dalle poche nuvole che facevano capolino nel cielo d’ottobre, e si protendeva a raggi verso i volti delle persone dietro i vetri del bus, che si imperlavano a poco a poco di sudore, tutti sembravano toccarsi il naso in quel frangente di tempo che l’autobus raggiungeva il capolinea, e fu così che per ammazzare il tempo in attesa di scendere e fumare, andò alla ricerca del suo gioiello prezioso. Avrebbe scritto, tutto il pomeriggio, di quanta piccola felicità poteva dare liberarsi nel corpo d’ un solo grumolo sudicio di sé. Quella mattina, si diceva, era stata a consegnare il suo racconto alla sua vecchia professoressa di letterature comparate, quando ancora andava all’università e la vita era solo affrontare quotidianamente la fobia sociale e immergersi ogni giorno in mezzo a una folla di  bimbetti imberbi che non osava rivolgerle la parola ma che aveva l’attenzione, la furbizia e forse la saggezza di tenere la testa incollata a un libro per più d’un ora, cosa che lei non riusciva assolutamente a fare senza addormentarsi o distrarsi per un nonnulla, ecco perché non aveva finito l’università, non era stata capace di leggere un solo libro da cima a fondo, con le sole pause dovute al respiro, senza doversi per forza mettere a fare qualcosaltro per illudersi di avere sempre qualcosa da fare ma rendendosi amaramente conto di non aver concluso nulla se non a fine della sera, imprigionata nella gabbia dai drappi rossi della sua camera cubica, quando si tirava la coperta fin sopra i capelli, spegneva la lampada del comodino, chiudeva un libro di Murakami che avrebbe preferito aver scritto che letto, riponeva nella borsa il pacchetto lungo di sigarette e tirava le somme dell’improficua giornata: la vita era proprio la sua malattia degenerativa, ansiogena prima e dopo la noia, un alternarsi di brevi momenti di svirgolamento emotivo e di lunghe pause d’attesa in solitudine, e spesso spurgava il marcio dai nasi.

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2 risposte a “Malata a chi?
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  1. Avatar masticone

    questo è un gran post…
    poesia..
    mischiare il sacro (la caccola) con il profano (la letteratura) è una cosa che ammiro incommensurabilmente

  2. Avatar blanca mackenzie

    Anch’io ho letto libri che avrei voluto scrivere (spesso mi capita anche con i post e da te ne ho letti un paio) … quando racconti sei spietata, e questo è un vero dono! Bravissima!

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