I nonni
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La casa di nonna al ritorno delle medie è il ricordo più bello che ho. Si tornava da scuola insieme, io e la Giorgia, solo che lei si fermava sempre alla fermata prima perché la sua casa gialla distava circa 200 metri da casa di nonna. Di primavera eravamo sempre accaldate e sudate e ci allacciavamo la felpa del mattino attorno alla vita e con lo zaino in spalla aspettavamo l’autobus sotto il sole e facevamo le corse a prenderlo perché l’orario di scuola non ci perdonava quei cinque minuti in più a camminare. Quando non ci riportava a casa suo nonno con la macchina che puzzava di cane, l’autobus era sempre pieno e affollato di studenti che urlavano in mezzo alla vettura impedendoci di passare verso l’uscita per prendere l’11, quello che portava proprio davanti alle nostre case. La nonna era sempre alla finestra ad aspettarmi e io sapevo che contava le macchine che passavano prima che io arrivassi perché era un giochino che facevamo sempre insieme quando aspettavamo la macchina del babbo alla domenica mattina quando si doveva andare tutti a pranzo dalla nonna Rina, o quei giorni che non andavo a scuola perché ero “malata” e in realtà stavo benissimo e accompagnavo nonna a fare la spesa alle due strade e si comprava sempre dagli stessi negozietti la frutta, il pollo, il pane, il latte, il burro, e tutte le cose necessarie alle mie giornate con lei. Che erano le più felici della mia vita. Quando tornavo da scuola i sofficini erano quasi sempre sbruciacchiati o i bastoncini neri di bruciatura perché lei si soffermava alla finestra, ma a me piacevano ugualmente perché potevo sgranocchiare la crosta e poi mettere il limone sul pesce bianco rimasto dentro, o ancora meglio la maionese. Ad aspettarmi poi c’erano sempre delle bellissime insalatone coi pomodori di contorno o il delizioso contorno di zucchine fagiolini e patate sempre troppo salato perché lei era talmente abituata a mangiare salatissimo che ne metteva a chili nell’acqua della bollitura. Ma a me piaceva così. E poi c’erano i tegolini, o le girelle, o qualsiasi dolce che lei una volta visto come me lo gustavo non smetteva più di comprare, beh, fino allo sfinimento, finché non cambiavo gusti. Non li cambiavo poi così facilmente. Era così felice il pasto con la nonna. Era felice anche la colazione, e la cena a base di minestrina acqua e burro, o di caffellate che come lo faceva lei non lo faceva nessuno, con la panna che galleggiava sopra da prelevare col cucchiaio e che nascondeva un profumatissimo fumo leggero che aleggiava in cucina. Il pane si abbrustoliva sulla vecchia griglia intanto, e io aspettavo felice per imburrarlo e inzupparlo. All’ora di pranzo si guardavano sempre gli episodi vecchissimi della signora in giallo, sempre con gli stessi personaggi riciclati una volta da zio una volta da nipote una volta da parente una volta da amico, e poi….e poi c’era beautiful prima di andare a danza, ovviamente dopo aver guardato i cartoni animati e mangiato il panino col prosciutto cotto davanti a mila e shiro. Quando c’era il telegiornale la nonna, sempre con la sua sigaretta in bocca, tentava invano di spiegarmi le cose di politica con i pochi oggetti che rimanevano sul tavolo, un pacchetto di sigarette, un accendino, un portacenere, un bicchiere vuoto di vino e sistemandoli a forma di camera del senato o della camera dei deputati e interscambiandoli a seconda di come andavano le cose ma io proprio non volevo capire e annuivo sorridendo sotto i baffi. La notte dormivamo insieme e si faceva sempre il gioco delle rime mentre risuonava per tutta la nottata radio radicale che ci teneva sveglie ed era divertentissimo passare le notti insonni con lei a giocare, cantare le vecchie canzoni fiorentine, e lei mi fregava sempre al gioco perché come ultima parola mi diceva sempre fegato ché non esiste una rima con fegato. Io ovviamente lo sapevo che tutte le volte mi faceva così, ma per l’ennesima volta ero felice. Ero felice anche quando si inventava le storie per farmi addormentare, mai una storia già sentita, sempre inventate lì per lì per me. A volte dormivamo testa-piedi, come diceva lei, a volte a seggiolina, nel letto a una piazza e mezzo con me sempre dalla parte esterna per evitare che lei ruzzolasse di torno, e la mattina quando mi svegliavo sentivo già l’odore del pane che sfrigolava in cucina, o il sottile sfruscio della carta delle fette biscottate che si aprivano. Sono ricordi bellissimi, e non li dimenticherò mai, così come non dimenticherò mai le nostre gite sulla sua cinquecento rossa tutta un rottame e l’incidente che la sfasciò tutta con a bordo me e mia sorella. Ci stava accompagnando a danza, e un autobus ci beccò in pieno, ma io ero con mia nonna, e nonna era fortunata, fortunata, fortunatissima. Non ci siamo fatte niente, ma la mamma da quel momento le impedì di usare la vecchia macchina e di guidare e allora niente più gite in cinquecento; mi ricordo quanto ho pianto. Ma quanto ero felice, quanto ero felice, con la mia nonna. La nonna Rina invece la vedevo soltanto la domenica, e quelle volte era lei che aveva bisogno di me, e non incontravo. Non sapeva cucinare e costantemente cucinava piatti che io deploravo, cavolfiore e piselli che poi da quando è morta ho imparato ad amare alla follia, che strana cosa. Mi chiedeva quanto le volessi bene in termini di apertura di braccia, lei cominciava con due ditina così e io allargavo le braccia più che potevo per farle vedere che le volevo bene quanto il mondo. Era permalosa, la nonna Rina, ed era gelosa, credo. Ma io ero, nuovamente, anche con lei, felice. E mi piaceva anche il suo caffellatte, fatto con l’orzo per me che ero bambina, orzo e zucchero, da diluire con l’acqua calda, e si prendevano le fette biscottate dalla scatola di latta rossa coi cuoricini bianchi e io scavavo scavavo tra le fette in cerca di qualche biscotto vero. I biscotti erano sempre in fondo. Lei non me ne dava mai una di troppo, e la notte mi metteva a letto da sola, a contare le pecore, non mi faceva dormire con lei, ma io di nascosto mi intrufolavo nella sua camera per indossare le sue pellicce, e i suoi anelli dal carillon che, maledetto, si metteva a suonare verso le quattro e per fortuna che lei russava e non se ne accorgeva. Erano tutti anelli di bigiotteria, però scintillavano, e io amavo sentirmi grande con la pelliccia e scintillante, come avrei amato per tutta la vita. La nonna Rina ogni settimana mi dava sempre 10 mila lire per il gelato, e Luciano anche, racchiusi in bigliettini di auguri che io conservo ancora gelosamente; c’era scritto alla carissima Elisabetta e la data, e basta, ma erano un tesoro prezioso che poi io spendevo in caramente e in fogli e penne per scrivere, tanto il gelato me lo comprava mamma. La carta da parati di casa della nonna Rina era bruttissima, e quella casa era tutta brutta sebbene fosse grande e spaziosa, era arredata in modo antico e soprattutto squallido e a me non piaceva, mi piaceva soltanto lo scatolone dei giochi di prestigio che mi aveva comprato (quanti pomeriggi ad imparare a disfare quei nodi – e non ci sono mai riuscita-) e la grande sala tv dove andavo a prendere il caffè molto annacquato della moka, metre i grandi se lo prendevano liscio o con il bicchierino di vinsanto in cucina io guardavo la tv in salotto dove c’era il mio amato puff e nascosti nell’armadietto le confezioni di caramelle fondenti alla banana, che si scioglievano in bocca e rilasciavano quella pappina iperdolciastra che faceva resuscitare i morti. Dalla nonna Rina si giocava alla tombola, con le cicerchie secche, e io volevo sempre fare quello che estraeva i numeri perché mi piaceva ripetere ogni volta a tutto quel sordame la differenzaa tra il 6 e il 7: dovevo scandire per bene i numeri che cominciavano dal 60 al 70, se per esempio usciva il 67 dovevo dire due o tre dote sei sette e non sette sette, e io ripetevo, ma loro dovevan essere sicuri, e mi facevano ripetere un’altra volta, e poi sbagliavano lo stesso e quando facevano cinquina bisognava ricominciare tutto da capo. Io imbrogliavo quando giocavo, ma non lo facevo
apposta, è che davvvero non ci capivo niente in quelle cartelle e alla tombola non vincevo mai una lira. Invece vincevo quasi sempre a settebello, ma non era confortante, perché lì si vincevano le fishes, mai i soldi. Il gioco più bello comunque era il mercante in fiera, con tutte le sue carte colorate e le mie preferite che erano la giapponesina e funchi e carote. Mio padre perdeva sempre con il lattante. La mamma perdeva sempre col cane. La nonna Rina col bersagliere, con la fortuna che avevano tutt’e due vincevano in ugual misura mia sorella e l’Irene, con il pavone e con la tigre rispettivamente. Il bello di quando vinceva nonna era che i pochi spiccioli racimolati li dava di nascosto a me perché nonna era più povera di nonna Rina, e non si poteva permettere le 10 mila lire la settimana. In più mi teneva in casa tutti i giorni e mi sfamava e divertiva tutti i giorni. Come quando mi insegnava a disegnare dritto con la matita, e a non sbavare, lei voleva che fossi precisissima. Il nonno era un pittore, ma io non l’ho mai conosciuto perché è morto molto tempo prima che io nascessi. Il nonno Mario, marito della nonna Rina, era burbero e non parlava spesso con me tranne quando mi faceva il gioco di strapparmi il naso e infilarselo fra le dita e io ogni volta abboccavo e dovevo correre in bagno a controllare che il naso ci fosse ancora. Poi è morto anche lui, e la nonna Rina era triste, ma non tanto perché c’era Luciano, che è il mio vero nonno, l’ho scoperto solo 3 anni fa e mi sono resa conto di quanto fosse ingombrante quella presenza nella nostra famiglia. Si davano addirittura del lei in nostra presenza, la nonna Rina e il nonno-vero Luciano. Adesso sono morte anche le nonne, il nonno vero, quello ufficiale, il pittore, e forse presto morirò anch’io, non lo so, ma Dio, com’erano felici quelle giornate.

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